Lettera da uno zio

mercoledì 25 Gennaio 2012

A un sèder pasquale di famiglia raccontai a mio zio Sy che stavo leggendo molto riguardo alla Shoah. Senza dirgli perché. Pochi giorni dopo ebbi da lui questa lettera. In quel periodo sua moglie, mia zia, era malata terminale di cancro allo stomaco, e morì poco dopo l’arrivo della lettera stessa.
Seymour Schechtman, per gli amici Sy, è un dentista in pensione, un lettore vorace, ed è stato presidente della sua comunità.

Caro Jon,
dopo la nostra conversazione al sèder ho deciso di venire incontro al tuo crescente interesse per l’Olocausto. Per qualche verso, si tratta forse di un tentativo di discolpa per le mie idee politiche antidiluviane: idee da vecchio strambo, che sono d’imbarazzo alle giovani generazioni. Da un punto di vista più pratico, forse si profila all’orizzonte il tuo compleanno; oppure diciamo che ti faccio un regalo per il quattro di luglio (Sy aveva allegato alla lettera la trilogia di Elie Wiesel e una copia de L’uccello dipinto di Kosinski).
Più facile, però, che a muovermi sia stata la squisita adeguatezza di parlare dell’Olocausto a Pèsach, quando l’Haggadah commemora l’effettiva nascita della nazione ebraica con l’aiuto della possente mano di Dio, con Dio stesso coinvolto in ogni miracoloso passo di quella strada, e l’Olocausto, in cui la completa assenza di Dio «presiede» al peggior disastro che la nostra storia millenaria e fitta di disastri ci riporta.
La notte di Wiesel è uscito nel 1960, quindici anni dopo che la consapevolezza dell’Olocausto era entrata negli annali del lato oscuro della storia dell’umanità. Il libro ruppe quella che era allora una «congiura del silenzio», per usare la famosa espressione di George Steiner su quello che allora era un argomento molto circoscritto. Come sai, da allora si sono aperte le cateratte, e il rivolo di scritti sull’argomento si è tramutato in un fiume che ora permette facilmente a chiunque di vivere nell’agio scrivendo, recensendo, dibattendo e tenendo lezioni all’infinito sugli aspetti centrali e marginali della questione.
La notte rimane però il maggior risultato letterario del genere, in parte perché tratta il problema cruciale dell’assenza di Dio (le altre due opere in questo volume sono certamente meravigliose ma non dello stesso livello). Nel libro Wiesel rinnega Dio davanti alla eclatante malvagità del terrore nazista, ma alla fine prova sentimenti diversi; e oggi è un ebreo osservante dell’halachà. Ironicamente, però, ha anche scritto dell’hasid mezzo matto che irrompe nella sinagoga sotterranea in Europa centrale ai tempi dell’Olocausto e trova degli ebrei che pregano in segreto. «Oy!, non pregate così forte, sennò Dio si accorge che ci sono ancora ebrei in giro». O del rabbino ortodosso che racconta ai suoi studenti in campo di concentramento che Dio è un bugiardo. «Come potrebbe il Padrone dell’Universo essere un bugiardo?» protestano i discepoli sbalorditi. «Perché se aprisse la sua finestra in cielo e ci vedesse, Egli direbbe, “non sono stato io”, e sarebbe un bugiardo».
Altrove Wiesel ha anche scritto della necessità di creare un nuovo Talmud per spiegare la relazione tra il genocidio degli ebrei e la moralità di Dio; la sua risposta definitiva, per ora, è che l’Olocausto è un fallimento di Dio e dell’uomo. (Wiesel ha scritto molti altri libri, malgrado non abbia tentato l’ascesa teologica o spirituale a un nuovo Talmud; questo però non deve inficiare il suo status di Santo vivente!) Ma soprattutto a Pèsach mi pare molto opportuno, e in particolare mentre ci avviciniamo, in questa vita terrena, a un tempo millenario, riflettere sul nostro destino di ebrei e su quanto ancora conti il nostro legame con Dio.
Come indubbiamente sai, dopo la guerra sorse fra importanti teologi, molti protestanti e alcuni ebrei, un vivace movimento «anti-Dio». Il movimento, dal fiero e ufficiale nome di Teoria della Morte di Dio, perse rapidamente vigore, e svanì quando cessò l’effetto scioccante della novità. Persino il giudaismo ricostruzionista, che era nato già prima di Hitler senza un Dio, ma con tutti i boriosi fronzoli del nostro retaggio di civiltà laica, ora ammette che il concetto di Dio è significativo. E Wiesel è un ebreo osservante. E la stragrande maggioranza della società, in questo Paese, è timorata di Dio.
L’ebreo moderno lo è invece, statisticamente, meno di tutti. Frequenta pochissimo la sinagoga e la comunità, forse perché ha ancora paura di pregare a voce troppo alta come i suoi impauriti, cupi ma tenaci antenati europei. Più facile, però, che la sua mancanza di devozione religiosa sia il segno della sua raffinatezza illuministica e dell’imbarazzo dinanzi alla superstizione dei suoi pii e retrogradi fratelli. Tuttavia, il fatto è che senza il concetto di Dio, proprio di quella Divinità «vivente» e appassionata che può intervenire nella storia quando è necessario, il giudaismo si ferma, resta senza benzina, privo di qualunque idea o speranza edificante.
La creazione dello Stato d’Israele è certo una manifestazione miracolosa, ma è ovvio che ci serve qualcosa di più, perché nessun conteggio fra bene e male può bilanciare lo sterminio degli ebrei con la rinascita di Israele, uno Stato il cui futuro è ancora assediato da molti gravi problemi, al punto tale che il pensiero di un altro massacro genocida non è una semplice fantasia paranoica. Perciò, a Pasqua bisogna implorare il Dio che guidò l’Esodo, che divise il mar Rosso, fece cadere la manna nel deserto e parlò dal Sinai, chiamandoci a servire come nazione di sacerdoti e insegnanti, volta ad aspirare alla santità divina nelle opere e nella pratica (non solo nel credo), quella Divinità – il ribbono shel ’olam, il padrone dell’universo – perché manifesti e spieghi il significato ultimo dell’uccisione dei Suoi ebrei innocenti. La palla è certamente nella Sua metà campo, il Suo Campo Celeste. Scrisse Maimonide che «sebbene egli tardi, io aspetto con totale fiducia la venuta del Messia». Io non ho fretta che si materializzi tanto il Messia, quanto la prova del vitale credo ebraico che questo è un universo morale; la cui geometria spirituale va ben oltre le nostre rozze equazioni fisiche ma i cui contorni essenziali, per quanto oscuramente percepiti, non possono contenere i vasti buchi neri di malvagità che abbiamo visto, senza le intuizioni che potrebbero ancora permetterci di rammendare il logoro tessuto della nostra fede nella regola aurea di una vita santa, e nella salvezza e redenzione finale proprio grazie a questa vita, come insistono la Torah ed il Talmud.
A mio avviso è questo, che l’Olocausto ci sfida a fare. A ricomporre la nostra fede ebraica di fronte a quest’evento orrendo, il peggior esempio di inumanità dell’uomo contro l’uomo. Non si tratta del mero conteggio delle razzie, della «vittimologia» degli ebrei (e naturalmente, per inciso, degli zingari, degli omosessuali e dei prigionieri politici coinvolti). Cinquant’anni dopo i fatti, ancora ci aggiriamo cauti intorno a quest’enorme ferita nel paesaggio della civiltà, ma forse anche noi saremo presto capaci di reinterpretare i fatti in modo più compiutamente ebraico. Einstein affermò che Dio «non gioca a dadi con l’universo»; egli naturalmente parlava della bramata unità di tutte le forze fisiche basilari. Il giudaismo aggiunge che Dio non gioca a dadi con la moralità ultima. Che l’uomo ha un sacro scopo, quello di trascendere la malvagia bestialità della sua natura animale, di trattare il prossimo con giustizia e senso di responsabilità (la regola aurea), e di essere il protettore e il custode del suo fratello.
Ricorda, questi sono tempi millenari! Secondo Ben Gurion, socialista ateo, nel momento del bisogno ogni razionalista sa che le tendenze cambiano e che bisogna credere ai miracoli. E naturalmente il Rebbe (Menachem Schneerson, il rabbino hasidico scomparso nel 1994) è in Paradiso; forse lui potrebbe convincere Dio a manifestare alcuni raggi di luce che diano un significato al terribile mistero del Ventesimo secolo e di tutta la storia umana.
Sy


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