Cosa ho imparato da Auschwitz

mercoledì 25 Gennaio 2012

Un medico, non ebreo, notò che leggevo un libro sul processo di Norimberga e mi disse: «Quando leggo dell’Olocausto mi viene la depressione clinica». Aveva ragione. La letteratura concentrazionaria va presa a piccole dosi, inframmezzata da altre letture. A immergersi in questo tipo di libri per mesi e mesi si finisce con la voglia di ammazzarsi.
Nel suo romanzo Jurgen, James Branch Cabell narra di Merlino che manda Jurgen da un druido, il quale gli aveva promesso di rivelargli la verità sulla vita; il mago pare intimorito all’idea di accettare l’invito personalmente. Jurgen, dopo aver ricevuto la rivelazione, la trova piuttosto spiacevole. Al che il druido replica: «Se Merlino avesse visto ciò che hai visto tu, egli sarebbe morto, e morto senza rimpianti, poiché Merlino affronta ragionevolmente i fatti».
Ciò nonostante, nel compilare l’Alfabeto di Auschwitz ho imparato alcune cose.

Dio non esiste

La più importante lezione che si può apprendere da Auschwitz è che Dio non esiste; il cosiddetto rasoio di Occam ci invita a non cercare una spiegazione complicata quando ne è disponibile una semplice. Da Auschwitz in poi i teologi si sono dovuti esibire in grandi contorcimenti, per rimanere legati all’immagine di Dio; ma esistono due sole possibilità. O Dio ha causato (o quanto meno permesso) la distruzione degli ebrei, dei gitani e delle altre vittime, oppure a Dio non importa niente. Il primo approccio è inaccettabile per due motivi: significa che interi gruppi di persone possono essere incriminati in base all’appartenenza etnica o all’identità, il che va contro tutto ciò in cui credo. E fa di Dio un assassino di massa. D’altra parte, se a Dio non importa niente, perché credere in Lui? Un Dio incurante è un Dio crudele, negligente o, peggio ancora, indifferente agli uomini e delle loro ambasce. Quest’ultimo – il Dio di Spinoza e dello psicotico dottor Schreber di Freud – è in realtà soltanto una formulazione metafisica, che ha poco o nulla a che vedere con la diffusa idea di un Dio che interviene nella storia umana.
Benché le possibilità siano due sole, esiste un terzo modo per conservare la fede in Dio: tacere e smetterla di fare domande. Curioso che questo sia il messaggio non di Dio, ma del diavolo, al cavaliere nel Settimo sigillo di Bergman. Probabilmente, la gran parte di quanti credono oggi in un Dio ebraico o cristiano – o almeno spero si tratti della maggioranza – semplicemente non chiede a Dio come Egli abbia potuto permettere Auschwitz. Ma questo modo di porsi è inaccettabile per quanti pensano che non esistano argomenti tabù per gli interrogativi umani.
La spiegazione di gran lunga più semplice per Auschwitz è che non esiste alcun Dio a intervenire nelle faccende umane. Nessuna divinità si preoccupa di ciò che ci facciamo l’un l’altro. La compassione e l’odio nell’universo umano sono tutta roba nostra. Dobbiamo cavarcela da soli.

Sopravvivere ad Auschwitz non fu un’esperienza nobilitante

Ho esitato prima di includere questa considerazione, perché è abbastanza marginale, e potrebbe anche essere usata per alimentare l’antisemitismo. Poiché si tratta di un’intuizione avuta nel fare ricerche su Auschwitz, non l’ho voluta tralasciare; ma non voglio nemmeno darle troppa importanza.
Sarebbe facile credere che chiunque sia sopravvissuto ad Auschwitz sia per forza un santo, ma le cose non stanno così. Auschwitz era un campo di sterminio. Ad Auschwitz un santo sarebbe probabilmente morto il giorno dell’arrivo; e se fosse sopravvissuto, sarebbe stato malgrado la santità e non grazie a essa. Quanti sopravvissero vi riuscirono perché possedevano e sfruttarono un qualche vantaggio sugli altri: sopravvissero i medici perché fin da subito i nazisti decisero di risparmiarli e arruolarli nella vita amministrativa del campo, compresi gli esperimenti sulle cavie umane; sopravvissero gli operai specializzati, perché le loro capacità servivano; le prostitute polacche, che furono risparmiate per la baracca bordello; i faccendieri, che si resero indispensabili alle autorità del campo.
Nel suo Maus, Art Spiegelman ci racconta in che modo sopravvisse ad Auschwitz suo padre, imprenditore. Il signor Spiegelman riuscì a convincere il suo capo-baracca di essere un ciabattino. Imparò da solo a fare alcune semplici riparazioni. Quando si trovò in mano un paio di stivali troppo rovinati per le sue possibilità, scovò un calzolaio in un’altra baracca e subappaltò il lavoro; dunque egli si salvò anche grazie al lavoro del vero calzolaio, ma della sorte di quest’ultimo non sappiamo nulla.
Poi c’è un altro racconto di cui non ricordo la fonte. Ogni mattina gli occupanti di ciascuna baracca dovevano presentarsi all’appello. Malgrado il caos del campo, gli omicidi quotidiani e le morti per malattia e sfinimento, la netta propensione tedesca per la burocrazia implicava che i numeri andassero controllati e che l’appello si facesse ogni giorno. Chiunque fosse stato scoperto all’appello senza scarpe sarebbe andato in gas; ma un attimo di distrazione, e qualunque effetto personale poteva essere rubato.
Un ragazzo sopravvissuto ad Auschwitz raccontò di essere stato stuprato una notte nella sua cuccetta da un altro internato. Il mattino dopo si accorse che lo stupratore, per assicurarsi la sua eliminazione, gli aveva rubato le scarpe: allora lui si limitò a prenderne un paio a un altro che ancora dormiva, determinando la distruzione dell’altro al posto della propria.
Primo Levi si salvò perché era giovane, relativamente forte, e laureato in chimica. Queste sono le sue parole a proposito dei sopravvissuti di Auschwitz:

Restavano solo i medici, i sarti, i ciabattini, i musicisti, i cuochi, i giovani attraenti omosessuali, gli amici o compaesani di qualche autorità del campo; inoltre individui particolarmente spietati, vigorosi e inumani, … e infine coloro che, pur senza rivestire particolari funzioni, per la loro astuzia ed energia fossero sempre riusciti a organizzare con successo, ottenendo così, oltre al vantaggio materiale e alla reputazione, anche indulgenza e stima da parte del campo. … (Tutti gli altri) hanno seguito il pendio fino al fondo, naturalmente, come i ruscelli che vanno al mare.
Levi, Se questo è un uomo, pp. 112-113

Auschwitz non è un assegno in bianco

Al liceo avevo un’amica libanese. La nostra era un’amicizia piena; potevamo parlare di quasi tutto. Mi raccontava di aver appena lasciato un ragazzo; io replicavo con una critica, e lei rispondeva: «Al suo posto, non ti tratterei allo stesso modo». Eravamo molto attratti l’uno dall’altra, ma non sarebbe mai potuto succedere nulla a causa della questione arabo-ebraica, argomento sul quale la comunicazione s’interrompeva sempre.
La scuola si trovava in un quartiere a maggioranza ebraica, e gli insegnanti erano per lo più ebrei. La mia amica non negava la Shoah, ma riteneva che i nostri insegnanti, parlandone ogni anno, la usassero come una sorta di assegno in bianco per gli attuali interessi ebraici: accusa che a quei tempi mi faceva impazzire di rabbia, ma che oggi prendo più sul serio. In seguito conobbi un’altra donna, di origine nativo-americana, che aggiunse la sua teoria: ti sono successe solo le cose che ti sono successe personalmente. Se nella vita sei stato oggetto di antisemitismo, ne hai fatto esperienza, e magari hai imparato qualcosa e per questo ti sei evoluto. Ma se non ti è accaduto, quel che è successo al tuo popolo prima che tu nascessi non ti conferisce alcun genere di statura morale.
I nostri insegnanti del liceo adoravano scrivere alla lavagna la citazione da Santayana secondo la quale se non si ricorda il passato, si è condannati a ripeterlo. È questo il motivo più importante per ricordare Auschwitz: ma il messaggio si perde sovente nel modo in cui è trasmesso, per esempio quando i nazisti sono presentati come un «altro» demoniaco, del tutto diverso da noi. Riprenderò questo tema più avanti. Il punto è che ogni qual volta si parla di Auschwitz, vale la pena di chiedersi quale sia il sottotesto: se la cosa appoggia strumentalmente un singolo paese, o il miglioramento delle condizioni di un singolo gruppo, si insultano coloro che sono morti. Se il discorso invece sostiene l’esame di coscienza, la fine dell’odio e il miglioramento di sé come persone, allora si deve ascoltare.

Ci sono diversi modi di ricordare

Non basta ricordare semplicemente il passato; si deve ricordare la verità, analizzarla, trarne delle norme e desiderare di agire. Ma non è questo ciò che solitamente facciamo. Perlopiù il nostro ricordare, di fatto, genera l’effetto contrario: è un passo preparatorio all’espulsione finale della verità dalla coscienza collettiva. Questo genere di memoria ricorda il processo mediante il quale l’ostrica crea una perla ricoprendo un’impurità. Il film Schindler’s List ne è un esempio; ci manda a casa dal cinema fiduciosi e sollevati, con la sensazione che la Shoah è sistemata, perché un eroe è sorto, e ci penserà lui. Ma così facendo, il film non ce la racconta giusta. I temi principali della Shoah non furono salvezza e speranza, ma disperazione e morte. Di tutti i libri che ho letto su Auschwitz, nessuno menziona Oskar Schindler, né riporta l’episodio mostrato nel film del salvataggio degli «ebrei di Schindler» dal campo; al contrario, tutti sono più o meno concordi sul fatto che da Auschwitz non c’era salvazione. Secondo Hannah Arendt, ne La banalità del male, Adolf Eichmann testimoniò che nemmeno a lui era riuscito di salvare un ebreo «prediletto» da Auschwitz.
Come si ricorda una verità che è causa di depressione clinica? Una verità che fa desiderare la morte anche a chi «affronta ragionevolmente i fatti»? Ti fai forza e la ricordi, punto e basta. L’unica speranza che si può trarre da una tale verità, vista chiaramente, è l’impegno ad agire in modo diverso e a fare la propria parte per rendere il mondo diverso da com’è.

I nazisti non sono tanto diversi da noi

Sono nato nel 1954, e molto di ciò che so della vita l’ho imparato al cinema. I nazisti di celluloide sono dei bruti, imbecilli e vanagloriosi, visti in film come Quella sporca dozzina e Operazione Crossbow. Poi si può leggere Ascesa e caduta del terzo Reich, o qualunque libro sui processi di Norimberga, e scoprire che quelli al vertice – Hitler, Goering, Goebbels e altri – si comportavano come i cattivi dei film. Ma dietro di loro c’era una moltitudine di persone che non doveva per forza fare così: seguivano i loro capi. Alcuni con entusiasmo, altri lasciandosi portare dalla corrente. Come noi. Per ogni dottor Mengele, ogni sadico che godeva nell’uccidere, c’erano cento o mille Eichmann, burocrati che si occupavano di trovare la capacità ferroviaria per deportare gli ebrei o le scorte di Zyklon B necessarie a gassarli. La responsabilità dei fatti era così capillarmente diffusa attraverso la burocrazia, e la società, che quelli a cui piaceva uccidere potevano farlo impunemente, e tutti gli altri erano protetti. La sola differenza tra la nostra, o qualsiasi altra società, e la Germania nazista, è il capo carismatico che ci dice che uccidere è giusto. E non c’è niente nella nostra società che gli impedisca di prendere il potere: in effetti, ci è già successo in diverse varianti.
Ho scritto un articolo mettendo a confronto due libri: Uomini comuni, su un gruppo di poliziotti polacchi di mezz’età incaricati di uccidere ebrei, e Banda di fratelli, su un plotone di paracadutisti durante l’invasione americana dell’Europa. Dalle pagine di entrambi i libri traspaiono l’umanità e la malvagità dei due gruppi: non c’è dubbio che se ai polacchi non fosse stato ordinato di uccidere essi sarebbero stati molto più felici, e che se agli americani fosse stato ordinato di sparare a donne e bambini tedeschi indifesi, gran parte lo avrebbe fatto.
In quegli stessi anni del liceo, quelli della mia formazione morale, rimasi sconcertato da opposti fatti di cronaca. In alcuni episodi, simili al famigerato omicidio di Kitty Genovese, in diversi erano rimasti a guardare mentre qualcuno veniva aggredito o ucciso. In altri casi un gruppo di persone si era mosso in aiuto della vittima, l’aveva salvata e aveva trattenuto l’aggressore fino all’arrivo della polizia. Anche a me capitò di contribuire a fermare qualche ladro per strada, e allora capii. Io mi ero messo a correre perché qualcuno aveva gridato «Al ladro!» ed era scattato; quando la folla salva una vittima, qualcuno agisce per primo e altri lo seguono. Quando la folla rimane a guardare, nessuno ha preso l’iniziativa. Probabilmente la gran parte di noi sta in precario equilibrio tra azione e inazione, tra bene e male: dipende tutto da chi si fa avanti.
Riguardo ad Auschwitz, una delle citazioni più pregnanti che ho trovato è anche una delle più famose, pronunciata da Himmler – assediato da richieste di salvare determinati ebrei – in un petulante discorso ai generali delle SS:

E poi arrivano ottanta milioni di degni cittadini tedeschi, e ognuno di loro ha il suo buon ebreo. Gli altri sono feccia, naturalmente, ma questo è un ebreo di prima qualità.

Quindi proseguì affermando che per divenire grandi, bisogna resistere a questi impulsi di debolezza e compassione:

La maggior parte di voi sa cosa significano cento cadaveri uno accanto all’altro, o cinquecento, o un migliaio. Aver sopportato tutto questo, e al tempo stesso essere rimasti degne persone, questo è ciò che ci ha temprati.

Qui c’è tutto: la patologia del potere, il nucleo compassionevole nel petto di ottanta milioni di tedeschi, e persino l’illusione di avere conservato la dignità. Noi non siamo diversi.

Il genocidio è sempre con noi

Auschwitz non è stato unico per genere, ma solo per dimensioni. In ogni epoca gli esseri umani si sono macchiati di genocidi, dalle battaglie fra tribù concorrenti di uomini preistorici fino alla moderna «pulizia etnica» in Bosnia.
Come ognuno degli ottanta milioni di leali cittadini tedeschi aveva il suo ebreo prediletto, così ciascuno di noi ha il suo genocidio preferito, quello che fa eccezione, che è stato compiuto per legittima difesa, oppure è un riprovevole ma comprensibile atto di guerra, o di eroismo, o l’imprescindibile rivendicazione di una divina primogenitura. Ci sono oggi israeliani per cui lo sparatore nella moschea è stato un eroico patriota, serbi che ritengono sproporzionata la debolissima reazione della Nato alla pulizia etnica, milioni di americani inconsapevoli che gli stessi Stati Uniti sono fondati sul genocidio.
Se si dice che sì, però è successo tanto tempo fa, e le cose erano diverse, e gli americani da allora sono cambiati, allora si pensi ai mucchi di cadaveri di My Lai, donne e bambini assassinati da soldati USA agli ordini del tenente William Calley.
Lo so: sembra io sia a un passo dal dire che il genocidio è inevitabile, che gli uomini si uccideranno sempre tra loro per la terra o il potere, quindi tanto vale smettere di parlarne. Ma non voglio affatto dire questo. L’uomo non ha volato finché non ha imparato a volare: che una cosa sia sempre stata in un certo modo, non significa che così deve continuare a essere.
Finché ci insegnano che il genocidio può essere commesso solo da un demoniaco «altro», che noi siamo brave persone e non potremmo mai provare il desiderio di macchiarcene, noi lo perpetueremo: perché sono proprio quelli che negano (come diceva Santayana) a perpetuare le malvagità ed i disastri del passato. Ha scritto Gibbon che la storia non è altro che la raccolta delle follie e sventure del genere umano; ma non è detto per forza che siamo eternamente condannati a commettere gli stessi delitti ed errori finché non ci estingueremo da questa terra. C’è una via d’uscita.

Il cuore è esposto a un male resistibile

Il nostro cuore morale, come quello fisico, è debole e tende ad ammalarsi. Se ci rendiamo conto di questo, e teniamo la morale in esercizio, avremo una possibilità di sopravvivere. Se invece lo neghiamo, e insistiamo che il nostro cuore è a prova di fallimento, facciamo entrare il male dalla porta principale.
Come i frammenti di un ologramma, ognuno di noi contiene un’immagine di tutta la specie; ognuno di noi è partecipe di tutta la bellezza e di tutto il male della condizione umana. Tutti siamo partecipi della musica di Mozart e della malvagità di Mengele. Se la mattina ci guardiamo allo specchio e ci diciamo: «Questa è la faccia di un assassino», ci metteremo in grado di cominciare il lavoro che deve essere fatto; il quale implica un bilancio giornaliero, con il quale domandarci ogni sera cosa abbiamo fatto durante il giorno per rinnegare quell’assassino. Qualunque cosa facciano gli altri, che anch’essi facciano questo lavoro o no, noi avremo fatto la nostra parte per far sì che Auschwitz non accada mai più.


RitornaProsegui