Vittime

mercoledì 25 Gennaio 2012

Il campo degli zingari ad Auschwitz rinchiudeva circa quattromila uomini, donne e bambini che furono tutti massacrati il 1° agosto 1944:

Fondata come un campo di famiglie, l’unità degli zingari si deteriorò rapidamente e divenne straordinariamente sporca e antigienica persino rispetto alla norma di Auschwitz, un posto dove neonati, bambini, adulti, tutti morivano di fame. B. insistette nel dire che «al campo venivano distribuite abbastanza razioni… perché tutti potessero sopravvivere», ma che certi zingari adulti di alto rango si appropriavano della maggior parte del cibo, privandone in tal modo tutti gli altri, fra cui i bambini. Le autorità di Auschwitz, «turbate» da questa situazione, vennero alla conclusione che fosse praticamente impossibile modificarla e che l’unica soluzione fosse quella di «gassare l’intero campo». Secondo B., Mengele si oppose con energia a tale decisione, fece vari viaggi a Berlino nel tentativo di farla revocare, e si spinse fino a dichiarare ad altre autorità di Auschwitz che l’annientamento del campo degli zingari sarebbe stato «un crimine».

(Altre fonti concordano, in larghissima maggioranza, sul fatto che Mengele vedesse con favore l’eliminazione degli zingari.)

Alcuni medici prigionieri che avevano lavorato ad Auschwitz in quel periodo mi dissero che quel giorno Mengele sembrava essere contemporaneamente dappertutto, esercitando un’attiva supervisione sull’uccisione degli zingari. Mengele aveva avuto stretti rapporti con alcuni bambini zingari, ai quali portava di solito cibo e dolci, e a volte anche piccoli giocattoli, e che aveva anche condotto a fare brevi passeggiate fuori del Lager. Ogni volta che appariva nel campo degli zingari, i bambini lo salutavano con calore, gridando «Onkel [zio] Mengele!» Ma quel giorno i bambini erano spaventati. Il dottor Alexander O. descrisse la scena e l’appello di una bambina a Mengele:

Mengele arrivò attorno alle otto o alle sette e mezza. Era giorno fatto. Al suo arrivo i bambini [gli si fanno attorno]… Una bambina zingara di undici o dodici anni…, la primogenita di un’intera famiglia – o forse anche di tredici, dato che con la denutrizione a volte si cresce di meno: «Onkel Mengele [lo chiama], il mio fratellino sta piangendo da morire. Non sappiamo dove sia nostra madre. Piange da morire, Onkel Mengele!» Da chi andava a cercare conforto? Da Mengele: la persona che amava e da cui sapeva di essere amata, perché Mengele li amava. E che cosa le rispose Mengele? «Willst du die Schnauze halten!»… Lo disse in un modo normale, volgare… ma… con una sorta di tenerezza: … «Perché non chiudi il becco?»

Altri riferirono che Mengele ispezionò minuziosamente i blocchi, scovando bambini zingari che si erano nascosti, e che trasportò personalmente in macchina un gruppo di quei bambini alla camera a gas, contando sulla fiducia che avevano in lui e parlando loro sino alla fine con tenerezza e in modo rassicurante.
Lifton, op. cit., pp. 421; 249-250

Una donna gitana sopravvissuta al campo delle famiglie zingare:

Uscii e andai verso la baracca dove c’erano i miei figli. Erano solo pelle e ossa, irriconoscibili. Giacevano là, si può dire, già morenti. E così dissi a mio padre, porta i bambini in infermeria, portaceli, dissi, e io vedo cosa posso fare. Se ci fossero andati prima, magari sarebbe stato diverso. E così mio padre portò il giorno dopo la più grande, aveva dieci anni. E quando la vidi, già non riusciva più a dire una parola. Stava lì, cogli occhi spalancati, e non una parola. Se ne stava là, più morta che… respirava appena. Così le parlai… e poi morì. La buttarono là e basta, con gli altri corpi. La mia bambina.
E così uno dopo l’altro. Una, quella di sei anni, era già morta quando arrivai. Non la vidi più. Non molto dopo, morì anche l’altro. Erano solo pelle e ossa. Ossa e pelle, nient’altro, gli si potevano contare le costole. Gli occhi infossati nel viso. I bambini erano morti, tutti e tre.
Anatomy, p. 452.

Così morì Emilia, che aveva tre anni; poiché ai tedeschi appariva palese la necessità storica di mettere a morte i bambini degli ebrei. Emilia, figlia dell’ingegner Aldo Levi di Milano, che era una bambina curiosa, ambiziosa, allegra e intelligente; alla quale, durante il viaggio nel vagone gremito, il padre e la madre erano riusciti a fare il bagno in un mastello di zinco, in acqua tiepida che il degenere macchinista tedesco aveva acconsentito a spillare dalla locomotiva che ci trascinava tutti alla morte.
Scomparvero così, in un istante, a tradimento, le nostre donne, i nostri genitori, i nostri figli. … Li vedemmo un po’ di tempo come una massa oscura all’altra estremità della banchina, poi non vedemmo più nulla.
Levi, Se questo è un uomo, pp. 20-21

I tre condannati salirono insieme sulle loro seggiole. I tre colli vennero introdotti contemporaneamente nei nodi scorsoi.
– Viva la libertà! – gridarono i due adulti.
Il piccolo, lui, taceva.
– Dov’è il Buon Dio? Dov’è? – domandò qualcuno dietro di me.
A un cenno del capo del campo le tre seggiole vennero tolte…
Poi cominciò la sfilata. I due adulti non vivevano più. La lingua pendula, ingrossata, bluastra. Ma la terza corda non era immobile: anche se lievemente il bambino viveva ancora…
Più di una mezz’ora restò così, a lottare fra la vita e la morte, agonizzando sotto i nostri occhi. E noi dovevamo guardarlo bene in faccia. Era ancora vivo quando gli passai davanti. La lingua era ancora rossa, gli occhi non ancora spenti.
Dietro di me udii il solito uomo domandare:
– Dov’è dunque Dio?
E io sentivo in me una voce che gli rispondeva:
– Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca…
Quella sera la zuppa aveva un sapore di cadavere.
Wiesel, op. cit., pp. 66-7

Il numero di persone assassinate ad Auschwitz è questione dibattuta. La stima più accreditata è di un milione e centomila vittime, per nove decimi ebrei.
Subito dopo la guerra, commissioni sovietiche e polacche riferirono un numero di quattro milioni di vittime del campo; il comandante del campo Rudolf Höss testimoniò che vi morirono tre milioni di persone.
Accertare esattamente quanta gente passò da Auschwitz è impossibile per due ragioni. Innanzitutto non si tenevano registri delle persone assassinate dopo le selezioni alla stazione; a queste non venne mai assegnato un numero, né furono mai inserite nei registri del campo, ma svanirono semplicemente dentro quella che gli stessi nazisti definivano «notte e nebbia»,
Nacht und Nebel.
Secondariamente, i nazisti distrussero molti registri esistenti prima di abbandonare il campo.
Studiosi come Franciszek Piper, in un saggio all’interno del citato volume Anatomy (pp. 61-67), giungono a stime personali tramite il controllo dei registri, più precisi, delle persone deportate ad Auschwitz dalle diverse nazioni, e sottraendo poi il numero di quanti furono certamente trasferiti in altri campi o sono sopravvissuti alla guerra.
In base a questi calcoli (1.300.000 deportati, meno 200.000 sopravvissuti) in questo campo furono uccise o comunque morirono almeno un milione e centomila persone. (Da
Anatomy, p. 71)

Franciszek Gajnowiczek oggi è un vecchietto allampanato con i capelli grigi, sopravvissuto ad Auschwitz per testimoniare che, quando scelto a caso per essere ucciso, nel 1941, un frate francescano, Maximilian Kolbe*, si fece avanti e si sostituì volontariamente a lui, morendo al posto suo.
Friedrich, op. cit., p. 166-167


* Il reverendo Massimiliano Kolbe è stato beatificato dalla Chiesa cattolica nel 1971 e canonizzato nel 1982, n.d.t. &#8617


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