Dottori

mercoledì 25 Gennaio 2012

I medici svolsero un ruolo cruciale ad Auschwitz. Partecipavano in sostanza a tutte le selezioni, decidevano della vita e della morte dei pazienti nelle baracche infermeria (finendo i più deboli con iniezioni di fenolo), e, di fatto, fecero a gara per farsi assegnare ad Auschwitz per l’abbondanza di materiale sperimentale umano disponibile al Blocco 10. Questi dottori tedeschi salvarono anche la vita di molti colleghi internati, di norma non per pietà bensì per arruolarli come collaboratori nei loro esperimenti su cavie umane.
La storia di Auschwitz è riassunta dalle vite, azioni ed esperienze di due medici che vi lavorarono, il dottor Josef Mengele e il dottor Ernst B.

Mengele

Nato nel 1911, era il maggiore dei tre figli maschi di Karl Mengele, imprenditore. Raffinato, intelligente e molto noto nella sua città, Josef studiò filosofia a Monaco e medicina a Francoforte sul Meno. Nel 1931 s’iscrisse a un gruppo paramilitare; nel 1935 discusse la sua tesi sulle differenze razziali nella struttura della mandibola inferiore. Nel 1937 s’iscrisse al partito nazista e nel 1938 entrò nelle SS. Nel 1942 venne ferito sul fronte russo e dichiarato inabile al servizio. L’anno seguente fece domanda di assegnazione ai campi di concentramento e fu mandato ad Auschwitz.
Mengele cominciò le sue ricerche sui gemelli, e setacciava ogni convoglio in arrivo alla ricerca di questi soggetti, che sfuggivano al gas ma divenivano cavie per orrendi esperimenti a cui molti non sopravvissero. Mengele fece uccidere parecchi dei suoi soggetti per poterli sezionare, oppure se ne disfaceva quando si indebolivano o non gli servivano più; era ossessionato dalla diatriba «ambiente versus natura», tutto teso a dimostrare che l’ereditarietà era tutto e l’ambiente nulla. Tra i suoi interessi vi erano il colore degli occhi, il gruppo sanguigno, e il noma, la malattia che lasciava buchi vuoti nelle guance dei bambini zingari internati.

Il dottor Jancu Veckler:

Nel settembre del 1943 arrivai al campo zingari di Birkenau. Lì vidi un tavolo di legno con sopra bulbi oculari. Tutti erano etichettati con numeri e brevi appunti. Erano giallo pallido, azzurri, verdi e viola.
Israel Gutman, Michael Berenbaum, Anatomy of the Auschwitz Death Camp, Indiana University Press, USA 1994, p. 326

L’ex internata Hani Schick, madre di gemelli che fu sottoposta a esperimenti insieme ai suoi bambini, testimoniò che il 4 luglio 1944, su istruzione di Mengele, furono effettuati sui suoi figli prelievi di sangue in quantità tali che la procedura terminò con la morte sia del maschietto, sia della femminuccia.
Anatomy, p. 324

In un altro caso simile, in cui una madre non voleva essere separata dalla figlia di tredici o quattordici anni, e reagì con morsi e graffi a un soldato delle SS che cercava di costringerla ad andare nella fila che le era stata assegnata, Mengele estrasse la pistola e sparò sia alla madre sia alla figlia. Come punizione collettiva, mandò poi alla camera a gas tutte le persone di quel trasporto che erano già state selezionate per il lavoro, dicendo: «Via questa merda».

I prigionieri «marciavano davanti a lui con le braccia alzate», ci dice la dottoressa Lengyel, «mentre lui continuava a fischiettare il suo Wagner», oppure poteva essere Verdi o Johann Strauss. Era un distacco ricercato … Ci sono inoltre molti racconti di casi in cui egli colpì dei prigionieri col lungo frustino, in un caso scorrendolo sui tatuaggi sul ventre di donne russe, come descrisse una sopravvissuta polacca, «e poi colpendole là», pur «non essendo affatto eccitato ma… in modo negligente… limitandosi a giocare là attorno come se ci trovasse un po’ di divertimento».

La passione di Mengele per la pulizia e per la perfezione si manifestava anche in una sorta di estetica delle selezioni: egli mandava alla camera a gas persone con macchie sulla pelle o con piccoli ascessi o addirittura con vecchie cicatrici di appendicectomia. «Due miei cugini furono mandati a morte da Mengele davanti ai miei occhi», disse un altro sopravvissuto, «perché avevano piccole ferite sul corpo».

Mengele alimentava la sua leggenda dando una dimensione teatrale alle due decisioni mortali, come quando tracciò sul muro del blocco dei bambini una linea orizzontale a un’altezza compresa fra 150 e 156 centimetri, inviando alla camera a gas coloro che avevano una statura inferiore.

Mengele poteva anche uccidere direttamente. Fu osservato eseguire iniezioni di fenolo, sempre con un corretto contegno medico. … Mengele sparò anche a un certo numero di prigionieri ed è stato riferito che abbia ucciso almeno una donna premendo il piede sul suo corpo.

Questa dualità – un misto sconcertante di affetto e violenza – mi fu descritta da vari testimoni. Una donna polacca sopravvissuta, per esempio, lo descrisse come «impulsivo… con un temperamento collerico», ma «nel suo atteggiamento verso i bambini [gemelli] … gentile come un padre…» … I gemelli lo chiamavano spesso «zio Pepi» e alcuni dissero che Mengele portava loro dolci e li invitava a fare un giro sulla sua macchina (risultò poi che spesso si trattava di «una piccola gita con zio Pepi, fino alla camera a gas»). Simon J. espresse questa situazione nel modo più conciso: «Poteva essere amichevole ma uccidere».
Lifton, op. cit., pp. 447-462

Il 18 gennaio 1945, all’arrivo dell’Armata Rossa, Mengele fuggì da Auschwitz. Catturato in giugno, trascorse del tempo in due campi di prigionia controllati dagli Stati Uniti, nei quali non venne identificato come criminale di guerra. Infine evase e riuscì a raggiungere l’Argentina. Visse nascosto là, in Paraguay e in Brasile, fino al 24 gennaio 1979, quando annegò nuotando nell’oceano a Bertioga, in Brasile.
Anatomy, pp. 329-331

Il dottor Ernst B.

Questo medico rimasto anonimo, che fu intervistato a lungo da Lifton, si rifiutò di partecipare alle selezioni, non condusse esperimenti dannosi e salvò le vite di molti pazienti e internati. Dopo la guerra fu assolto dall’accusa di aver commesso crimini di guerra e ostinatamente difeso dagli ex internati, alcuni dei quali rifiutarono persino di identificarlo dinanzi alle autorità. Era un giovane medico generico nel 1939, quando la guerra cominciò. Si arruolò nelle SS e fu infine mandato ad Auschwitz a metà del 1943. Sapendo poco dei campi, portò con sé la moglie. Quando espresse il suo orrore alla vista dei prigionieri emaciati, un suo buon amico, il dottor Bruno Weber, gli disse di mandare la moglie a casa ma che, se fosse rimasto, avrebbe potuto lavorare in modo indipendente dalla gerarchia SS del campo.

Weber espose quindi a B., «quasi con ironia», la verità centrale di Auschwitz, citando l’espressione ufficiale «Soluzione finale della questione ebraica»: «Egli [Weber] disse: “Se vuol vedere come funziona, vada a guardar fuori dalla finestra. Vedrà… due grandi camini… Il tipo normale di produzione di questa macchina… è mille persone in ventiquattr’ore”.»
Lifton, op. cit., p. 397

B. alla ricerca di un amico ebreo

Michael Z., un ex medico prigioniero … mi raccontò come fosse rimasto sorpreso quando Ernst B. fece irruzione in laboratorio «alla ricerca di un amico ebreo. Mi chiese, parlando a voce molto alta… “Lei conosce Cohen?”. Io gli dissi: “[Prego], si calmi, lei non ha il diritto di parlare così”». Il dottor Z. mi spiegò perché avesse ritenuto necessario di proteggere il dottor B. dicendogli di calmarsi e, implicitamente, di proteggere anche se stesso. … Al tempo stesso, però, Z. fu profondamente toccato dalla ricerca del medico ss: «Capii che era davvero un uomo che ragionava in modo diverso…, che era capace di sentimenti umani… … perché era inaudito trovare una SS che pronunciava il nome di un amico ebreo».
Lifton, op. cit., p. 399

B. si rifiuta di effettuare selezioni

B. rispose invece alle ripetute sollecitazioni di Wirths con rifiuti, motivati da una serie di ragioni: che aveva troppo lavoro, che trovava quel compito incompatibile con le sue mansioni, che semplicemente non poteva svolgerlo, ne era psicologicamente incapace.
Lifton, op. cit., p. 402

Protegge e salva gli internati

Superata la crisi suscitata in lui dalla richiesta di compiere selezioni, il dottor B. non dovette affrontare altre difficoltà degne di nota ad Auschwitz. Egli consolidò una rete notevole di rapporti con medici prigionieri… Quando si ammalavano provvedeva perché potessero avere i farmaci necessari e perché venisse prestata loro l’assistenza del caso e li visitava egli stesso. Li aiutò a mandare messaggi a mogli e amici in altre parti del campo, e ne favorì gli incontri. Contribuì alla loro sopravvivenza tenendoli informati sui vari punti di vista e sui vari progetti di cui si parlava fra le autorità ad Auschwitz. E salvò direttamente vite umane in altri modi: proteggendo i medici prigionieri dalle selezioni, trovandoli e salvandoli dalla camera a gas dopo che erano già stati selezionati e sottoponendoli a esperimenti benigni…
Lifton, op. cit., pp. 410-411

L’amicizia con Mengele

Il dottor B. ricordava Mengele come «premuroso», «un camerata veramente bravo»… e ammirevole nelle sue «aperte ammissioni di simpatia e antipatia…»

Quando sollevai il problema degli esperimenti di Mengele sull’uomo, B. insorse in difesa dell’amico: gli esperimenti sull’uomo erano una «cosa relativamente minore» ad Auschwitz; i bambini (che costituivano di gran lunga la maggior parte dei gemelli studiati da Mengele) avevano poche probabilità di sopravvivere ad Auschwitz, ma Mengele si assicurò che fossero ben nutriti e che ci si prendesse cura di loro … E quando io chiesi a B. se fosse disposto a mutare opinione nel caso che io gli avessi fornito ampia prova dell’abitudine di Mengele di mandare ogni tanto alla camera a gas uno o entrambi i gemelli di ogni coppia, B. rispose senza esitazione di no «perché nelle condizioni di Auschwitz si deve sempre dire che gli esperimenti di Mengele non erano forme di crudeltà».
Lifton, op. cit., p. 419

Evacuato a Dachau, consegna una pistola ai colleghi ebrei

All’avvicinarsi delle forze alleate, egli discusse con i medici prigionieri possibili accomodamenti per permettere loro di sottrarsi al controllo dei nazisti, compresa l’idea di fornire loro uniformi di SS. Poi strinse loro la mano e li «salutò in modo molto amichevole», dopo di che estrasse una pistola dal suo cassetto e la diede a uno di loro come forma di protezione.
Lifton, op. cit., p. 424

Rimane comunque un nazista

Alla fine dell’intervista, paragonando il periodo nazista a oggi, disse che, nonostante la «liberazione totale» di oggi, c’è un’assenza di «ideali per i giovani», una «mancanza di impegno», che conduce a «condizioni di caos» e all’assenza di una «comunità unita». I nazisti «esagerarono» nella direzione opposta, riconobbe, ma nei metodi certamente «primitivi» di Hitler c’era «qualcosa di giusto», e qualcosa «di buono nei nazisti».
Lifton, op. cit., pp. 430-431


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