Introduzione

mercoledì 25 Gennaio 2012

Io sono ebreo, e tre dei miei quattro nonni erano nati in Russia; il quarto veniva dalla Polonia. Tutti partirono tra il 1900 ed il 1919, evitando così la Shoah di alcuni decenni. Fossero rimasti, si sarebbero trovati proprio sul percorso della tragedia; i miei nonni materni avrebbero potuto essere fucilati dagli Einsatzgruppen a Babi Yar, i miei nonni paterni finire gassati ad Auschwitz.
Essere un bambino ebreo in America, persino a New York, implica una certa dicotomia nella realtà. Da un lato (se appartieni a un ebraismo laico, molto assimilato) ti senti quasi sempre un normale ragazzino americano; ma poi, di tanto in tanto, la gente ti ricorda che non lo sei. Un tuo compagno di scuola ti dice che «gli ebrei hanno ammazzato nostro Signore», oppure qualcuno afferma che la Shoah non è mai accaduta o è molto esagerata, oppure leggi sul giornale che un esponente del Ku-Klux-Klan, al Sud, sostiene che gli ebrei non sono bianchi. Cosa più importante, mentre cammini per strade piene di cattolici e protestanti che per lo più ti trattano esattamente come chiunque altro, una parte di te immagina che nel 1942 in Europa avresti portato la stella gialla, saresti stato fucilato sull’orlo di una fossa, o mandato in una camera a gas.
Circa il venticinque per cento della popolazione di New York è costituito da ebrei – cioè, ci sono più ebrei a New York che in Israele – e nelle scuole non difetta l’insegnamento sulla Shoah. In seconda media il professor Natoli, insegnante di educazione civica dall’affabile aria da zio, scrive sulla lavagna una sua versione della citazione di Santayana: «Chi non ricorda il passato è condannato a ripeterlo». Scrive «condannato» in stampatello e lo sottolinea due volte per maggiore enfasi. L’intera scuola è condotta all’auditorio, dove assiste al breve film di Alain Resnais Notte e nebbia. Ragazzini di dodici anni guardano i cadaveri accatastati e impilati, spinti dai bulldozer, calati dagli scivoli.
Ma il messaggio è molto ambiguo. Da una parte, dobbiamo ricordare il passato; dall’altra, ciò che è accaduto là non potrebbe mai accadere qui, perché i nazisti erano diversi, e noi non siamo come loro. Metti il naso fuori New York e scopri l’esistenza di gente che della Shoah non sa assolutamente nulla, di università dove viene considerata esclusivamente materia di studi ebraici, di moltissimi tuoi simili per cui gli ebrei hanno ammazzato «nostro» Signore. Di molte persone amabili, degnissime e amichevoli, senza traccia esplicita di pregiudizi, che quando leggono dell’arresto di un settantenne ex guardiano di campi di concentramento, il quale ha ucciso con le sue mani, commentano: «Ma quand’è che li lasceranno in pace?». Poi c’è una minoranza rumorosa e convinta che non ci sia mai stata nessuna Shoah; che Auschwitz esisteva come campo di prigionia, ma che laggiù nessuno veniva ucciso col gas, e che i soli decessi verificatisi fossero dovuti alle mancanze e privazioni ugualmente sofferte dagli stessi tedeschi man mano che gli Alleati avanzavano.
Questi sono i fatti: tra il 1941 e il 1945 una nube nera passò sulla faccia dell’Europa e, al suo dissolversi, si scoprì che gli ebrei di Germania, Austria, Francia, Belgio, Olanda, Grecia e dell’intera Europa orientale erano stati sterminati, insieme a zingari, omosessuali e milioni di civili coinvolti nella guerra. La Shoah è un fatto umano; come dirò nella postfazione, è solo il più enorme e significativo fra i tanti genocidi del Ventesimo secolo, e uno dei moltissimi nella storia dell’umanità. Gli ebrei furono prescelti quella volta come già in altre occasioni (a volte pare che chiunque stia andando a fare a botte si fermi per strada a pestare un ebreo) ma vi sono state vittime anche fra molti altri gruppi.
L’Alfabeto di Auschwitz è il risultato di molti anni di letture sulla Shoah, e in particolare sul campo di sterminio di Auschwitz. Da adulto mi sono avvicinato a questo materiale tramite il libro I sommersi e i salvati di Primo Levi, del quale ho fatto largo uso. Levi, cui quest’Alfabeto è dedicato, riemerse da Auschwitz con l’animo ancora delicato di un uomo dotato di senso dell’umorismo e grande compassione; lui sarà la vostra migliore guida attraverso questi orrori.
L’Alfabeto rappresenta quindi la mia personale selezione (macabro termine) dei più significativi aspetti della vita e della morte ad Auschwitz. In ventisei «spaccati» ho tentato di illustrare l’intero paesaggio umano del campo: chi uccideva e chi moriva? Come si sopravviveva? Cosa accadeva alla lingua parlata dalla gente? Quali regole governavano aguzzini e vittime? Dov’era Dio?
Si può navigare per l’Alfabeto seguendo due rotte. Ho creato collegamenti di pagina in pagina che permettono di leggere in sequenza, dall’inizio alla fine, senza tornare all’indice; altrimenti, si può usare l’indice stesso come punto di partenza per valutare gli elementi che interessano. Avevo anche preso in considerazione una terza via, ma ho ancora dei dubbi al riguardo, etici e di efficacia: vale a dire mettere il lettore, nei panni di un internato nel campo, di fronte a scelte ed eventi che avrebbero poi comportato determinate conseguenze, tipo: «Sulla banchina del binario, il dott. Mengele ti manda a destra/a sinistra»; e di lì, mostrare ciascuna possibilità – per esempio, finire al crematorio – collegata al pertinente materiale descrittivo. Potrò sempre aggiungere quest’opzione in futuro, se dovessi giungere alla conclusione che questo rafforza l’impatto anziché banalizzare l’argomento, o trasformarlo in un macabro gioco.
L’obiettivo principale era creare un luogo nel ciberspazio che rendesse testimonianza di ciò che accadde, e tentare di fornire un qualche appiglio alla comprensione. Tutto ciò che del mondo «esterno» conta, o è importante capire, dovrebbe poter trovare un’eco in queste pagine.


Prosegui