Hanno sperato

mercoledì 25 Gennaio 2012

La speranza che uccide

Nonostante le passioni della guerra, vivevamo in un altro mondo. Forse per coloro che sarebbero venuti poi … E se adesso siamo qui, forse è sempre per quel mondo. Credi che senza la speranza di vedere un giorno arrivare quell’altro mondo, di veder ristabilire i diritti dell’uomo, riusciremmo a sopravvivere nel campo anche un solo giorno?
È proprio questa speranza che fa andare la gente con inerzia alle camere a gas, che la trattiene dal rischiare una rivolta, la fa sprofondare nel torpore. È la speranza a spezzare i legami familiari, spingendo le madri a rinnegare i figli, le mogli a prostituirsi per un tozzo di pane e i mariti ad ammazzare. È la speranza che li fa lottare per un giorno di vita in più, perché forse la liberazione giungerà proprio quel giorno. Ah, dopotutto non è nemmeno più la speranza in un mondo diverso e migliore, ma semplicemente quella in una vita in cui ci sia pace e riposo. Mai, nella storia dell’umanità, la speranza è stata più forte dell’uomo, e mai essa è stata causa di tanto male quanto in questa guerra, in questo campo. Nessuno ci ha insegnato a disfarci della speranza, per questo moriremo nelle camere a gas.
Tadeusz Borowski, Da questa parte, per il gas, trad. it. di G. Tomassucci, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2009, pp. 71-72

Autoinganni

A scopo di difesa, la realtà può essere distorta non solo nel ricordo, ma nell’atto stesso in cui si verifica. Per tutto l’anno della mia prigionia ad Auschwitz, ho avuto come amico fraterno Alberto D.: era un giovane robusto e coraggioso, chiaroveggente più della media, e perciò assai critico nei confronti dei molti che si fabbricavano, e si somministravano a vicenda, illusioni consolatorie («la guerra finirà fra due settimane», «non ci saranno più selezioni», «gli inglesi sono sbarcati in Grecia», «i partigiani polacchi stanno per liberare il campo», e così via: erano voci che correvano quasi ogni giorno, puntualmente smentite dalla realtà). Alberto era stato deportato insieme col padre quarantacinquenne. Nell’imminenza della grande selezione dell’ottobre 1944, Alberto ed io avevamo commentato il fatto con spavento, collera impotente, ribellione, rassegnazione, ma senza cercare rifugio nelle verità di conforto. Venne la selezione, il “vecchio” padre di Alberto fu scelto per il gas, ed Alberto cambiò, nel giro di poche ore. Aveva sentito voci che gli sembravano degne di fede: i russi erano vicini, i tedeschi non avrebbero più osato persistere nella strage, quella non era una selezione come le altre, non era per le camere a gas, era stata fatta per scegliere i prigionieri indeboliti ma ricuperabili, come suo padre, appunto, che era molto stanco ma non ammalato; anzi, lui sapeva perfino dove li avrebbero mandati, a Jaworzno, non lontano, in un campo speciale per convalescenti adatti soltanto per lavori leggeri. Naturalmente il padre non fu più visto, ed Alberto stesso scomparve durante la marcia di evacuazione del campo, nel gennaio 1945.
Levi, Sommersi, pp. 21-22

La speranza che sorregge

Fammi vedere il tuo braccio… Hmm… il tuo numero parte con diciassette. In ebraico è K’Minyan Tov. Diciassette è un presagio molto buono…
(Era un prete. Non era ebreo… ma molto intelligente!)
Finisce con tredici, l’età in cui un ragazzo ebreo diventa uomo… E guarda! Sommati fanno diciotto. È Chai, il numero ebreo della vita. Non so se io sopravviverò in quest’inferno, ma sono certo che tu uscirai di qui vivo!
(Cominciai a credere. Vedi, lui mise un’altra vita in me. E quando tutto era molto brutto, guardavo e dicevo: «Sì, il prete aveva ragione! Totale fa diciotto».)
Art Spiegelman, Maus-Racconto di un sopravvissuto, trad. it. di R. Carano, Rizzoli, Milano 1989, p. 32


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